Stati Uniti – The Unexpected Big Apple Adventure

Racconto di un viaggio vissuto sulla pelle di una ragazza diciottenne che guardò a questo mondo completamente sconosciuto con occhi curiosi e voglia di meravigliarsi.

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Non ho mai pensato realmente di provare a raccontare le mie due esperienze di viaggio negli States, e ormai sono già passati 4 anni dalla prima e 3 dalla seconda. Adesso, per vari motivi, mi ritrovo di fronte a questa pagina bianca con una certa ispirazione, ma soprattutto con la voglia di mettermi in gioco, magari potendo essere utile a qualcuno o semplicemente allietando la giornata di qualcun altro, facendolo viaggiare con le mie parole. La ferma convinzione che per noi italiani, e per gli abitanti del vecchio continente in generale, l’America è sempre stata un sogno, l’incarnazione del nuovo mondo e di una nuova vita, la rappresentazione della libertà e della contemporaneità, un Paese che non ha molta storia culturale da raccontare ma possiede un immenso patrimonio naturale e paesaggistico che nemmeno nei nostri sogni più nascosti riusciremmo a immaginare, mi ha sempre spinto in questa direzione. Per tutto questo, vale la pena provare a raccontarla, lasciando una testimonianza di un viaggio vissuto sulla pelle di una ragazza diciottenne che guardò a questo mondo completamente sconosciuto e immensamente vasto con occhi curiosi e voglia di meravigliarsi ogni momento di più.

La mia “fortuna” iniziò tutta con mio padre che un giorno di qualche anno fa mi comunicò che l’avrebbero trasferito per 3 anni negli Stati Uniti per lavoro, precisamente a Virginia Beach, in Virginia, East Coast. Un lavoro d’ufficio come un altro, e quindi, così come un qualunque altro lavoro d’ufficio, le ferie erano previste e confermate, specialmente in questo Paese, dove i diritti dei lavoratori sono sacrosanti. Mi propone “Perché, quando finirete la scuola, non venite te e tua sorella a trovarmi per l’estate?”. Ovviamente l’idea di andare in un luogo così lontano, così esotico per me, che tutti sognano volontariamente o inconsciamente, mi affascinava e mi eccitava allo stesso tempo, e non ci ho pensato due volte ad accettare la sua proposta. Così, con questa promessa nell’aria e custodita nel mio cuore, finii la scuola, aspettando, sempre più fremente, il giorno della partenza.

Io, appena diciottenne, e mia sorella, quindicenne, il 6 luglio del 2011 ci imbarcammo su un volo Delta da Pisa con destinazione New York City, tra pianti e abbracci di mia madre che si raccomandava per l’ennesima volta di fare attenzione a qualsiasi cosa, e noi due che la salutavamo, rassicurandola che sarebbe andato tutto bene con dei sorrisi ebeti stampati in faccia, non vedendo l’ora che queste 10 ore di aereo sarebbero terminate e finalmente avremmo posato per la prima volta i nostri piedi sul suolo americano. Il volo fu lungo e quasi pensavo che sarebbe stato interminabile, ma dopo tutte quelle ore di attesa un po’ seduta e un po’ passeggiando per i corridoi dell’aereo, il momento tanto aspettato arrivò.

Solo l’aeroporto, il JFK International Airport di New York, era enorme. Lì per lì pensai che non avremmo mai trovato mio padre e che ci saremmo perse. Mio padre invece era agli arrivi ad aspettarci, insieme a sua moglie e alla nostra terza sorellina, e noi, dopo file lunghissime per poterci registrare all’immigrazione, li vedemmo da lontano, in trepida attesa anche loro.

I primi 3 giorni li passammo a New York. Questa avventura parte da qui. Tre giorni non bastano assolutamente per vedere e capire questa città, te ne danno solo un’idea, un accenno che ti lascia col pensiero “Devo tornarci, prima o poi, o non l’avrò mai vista veramente”.

La Grande Mela, The Big Apple. Stavo costantemente col naso all’insù, incredula e incapace di credere ai miei stessi occhi di fronte quello spettacolo di grattacieli, dei quali non vedevo mai la fine, le luci accecanti, la gente che costantemente, giorno e notte, camminava mentre noi ci divertivamo a fantasticare su dove andassero, che lavoro facessero o a quale piano di quegli altissimi grattacieli fosse il loro appartamento. E poi i taxi, tutti gialli, tutti uguali, che invadono le strade newyorkesi come fossero api laboriose che producono miele nel loro alveare; Times Square, piena di schermi e di telecamere che riprendono la vita brulicante della piazza live 24 ore su 24 e qualsiasi persona da qualsiasi parte del mondo, può accedere a questi video e “spiare” le persone a loro consapevole insaputa.

Non mi scorderò mai la schiena della Statua della Libertà. Dopo aver fatto il tour dentro fino al punto più in alto, uscendo sulla terrazza, che è la corona della Statua, hai la vista sul quartiere finanziario, il più famoso e il più attrattivo della città: Manhattan. Dopo aver concluso il giro all’interno, siamo usciti dalla Statua della Libertà, ma da dietro, e quindi mi sono trovata di fronte alla sua schiena, e davanti a lei, ma per me era dietro di lei, la città, che vivace si estendeva. Una visuale che non scorderò mai.

Tornati a Manhattan decidemmo di attraversare la 5th Avenue, dove negozi e boutique di lusso la fanno da padroni assoluti, ma dove noi ci limitammo solamente ad osservare le vetrine, senza permetterci nemmeno di entrare, fino ad arrivare a Central Park, il cuore verde di Manhattan, pieno di corridori, soprattutto durante l’ora di pranzo, e noi guardandoli eravamo convinte che si stessero allenando per la prestigiosa e quasi inaccessibile maratona di New York. Ogni città del mondo dovrebbe avere un parco così: un grosso rettangolo di ossigeno che depura in qualche modo i polmoni sempre attivi della Grande Mela e le permette di continuare a respirare. Ma Central Park è ancora più affascinante visto dall’alto dell’Empire State Building, l’ex grattacielo più alto del mondo. Con i suoi 381 m di altezza, ovvero ben 102 piani, sovrasta la città e pare proprio di vedere sulla punta King Kong che tiene in ostaggio la sua amata, infatti quando ce lo ritrovammo davanti, io e mia sorella ci guardammo, quasi con timore. Dopo essere entrati e aver notato lo sfarzo degli interni, prendemmo l’ascensore per arrivare in cima, dove si trova la terrazza panoramica e anche questo momento non riuscirò a scordarmelo mai: i piani non finivano mai! Era la prima volta che prendevo un ascensore che saliva tanti piani quanti erano quelli. Guardavo il contatore, e il numero cresceva, senza fermarsi. Quando arrivammo al piano giusto (il 70esimo, e nemmeno stavamo sulla cima estrema!) scendemmo e cominciò la fila per il biglietto. Lunga, lunghissima anche quella, ma una volta sulla terrazza, niente ti ripaga così: la città intera ai tuoi piedi come un tappeto che si estende in lungo da una parte, fino ad arrivare al fiume Hudson in lontananza, e in largo dalla parte opposta, dove comincia l’entroterra della città, verso il Bronx, sempre col fiume Hudson che sinuosamente costeggia il lato sinistro di Manhattan. E poi ovviamente eccolo lì, Central Park, visto dall’alto, inconfondibile e innaturale in mezzo a quel paesaggio così fortemente antropico, ma così profondamente suggestivo.

Per noi, una cosa che non potevamo assolutamente perderci era vedere uno spettacolo a Broadway. Mio padre aveva comprato con largo anticipo su Internet i biglietti per vedere il musical di “Mamma mia”. Non so perché proprio quel musical, però devo ammettere che fu proprio una buona scelta. La strada stessa di Broadway, by night, era qualcosa di magico, straordinario, non comune. Teatro dietro teatro, avevo la sensazione che mi perdevo qualcosa di incredibile all’interno, e mi chiedevo se una vita intera sarebbe bastata per vedere ogni teatro, ogni spettacolo, e bearmi dell’arte teatrale più famosa al mondo. Mi piacque moltissimo quel musical, anche se alcune cose non le avevo afferrate bene in inglese – americano, dato che ero lì solo da un paio di giorni e ancora non ero abituata a quella parlata.

Beh, a me sembrava di aver già visto tantissimo, di quella città infinita, eppure avevo visto solo una piccola parte. Ma nel frattempo i primi tre giorni passarono e così dovemmo metterci in macchina, pronti per la nostra prima trasferta di 6 ore da New York a Virginia Beach, per poter finalmente posare i bagagli e scoprire la nostra “nuova casa” americana per quell’estate. La macchina era un suv enorme (chissà come mai in Italia i suv ci sembrano grossi, ma in realtà sono proprio piccini in confronti a queste bestie), le strade erano enormi, con minimo tre corsie, persino le case, e la nostra casa non era da meno. Mio padre ci disse che avrebbe avuto le ferie dal lavoro dal primo di agosto per 3 settimane e che in quelle 3 settimane avremmo fatto un viaggio on the road in macchina dal sud al nord della California, passando anche per l’Arizona e il Nevada. Non avrei mai creduto a queste parole fino a che non avessi vissuto questa esperienza realmente. In un’unica estate avevo già visto New York City, avevamo osservato la East Coast dal finestrino del nostro suv fino in Virginia e avremmo anche avuto l’opportunità di vedere la West Coast. Mi sembrava qualcosa di irreale, impossibile.

Presto le settimane passarono, e il giorno previsto per la partenza verso questo incredibile viaggio non tardò ad arrivare: eravamo tutti pronti, le valigie preparate, il programma di viaggio stilato e la mente svuotata, pronta anch’essa per essere riempita di nuovi luoghi, nuove situazioni, nuovi ricordi.

Ma questa è un’altra storia. Un viaggio così non può essere narrato all’interno del racconto dell’inaspettata avventura della Grande Mela.

Hold on and keep on dreamin’, buddies!

Fabiana Messina

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